Pinocchio, recensione del live action su Disney+ dall’8 settembre 2022
Del live action di Pinocchio (diretto da Robert Zemeckis e scritto da Robert Zemeckis e Chris Weitz) si parla da mesi. Attesissimo, promette emozione, nuove canzoni originali, nostalgia, in un unico pacchetto compresp di CGI e Tom Hanks. Il nuovo Pinocchio è disponibile su Disney+ dall’8 settembre 2022, in occasione del Disney+ Day.
Senza entrare nel merito della questione live action, che ormai è stata tirata fuori da chiunque ed è uno dei temi più discussi quando si parla di cinema contemporaneo e di nuove e vecchie storie, soprattutto in relazione ai cult dell’animazione, la domanda che ci vogliamo fare in questa recensione è: per chi è stato pensato il live action di Pinocchio?
Pinocchio, una triste storia triste
La vicenda, che conosciamo tutti, è già abbastanza triste. Parla di inclusione, di famiglia, di solitudine, di coscienza, di trovare il proprio posto nel mondo, di non farsi abbagliare dalle promesse di felicità immediata. Quella che è nata, nella mente del buon Collodi, come letteratura per ragazzi, atta a metterli in guardia dai pericoli e dall’incoscienza, a farli crescere bravi soldatini giudiziosi, si è trasformata in una storia oscura, triste, malinconica. Questa svolta era presente già nel film animato del 1940, ma la versione live action gli dà nuova linfa. Alla tristezza, dico. Geppetto-Tom Hanks è un vecchio delirante, che sta cercando di superare il dolore di una grossa perdita. Non pensa agli affari, è zoppo e dolorante, non fa altro che parlare con il gatto e con il pesce rosso (in CGI pure loro). La costruzione del burattino Pinocchio è un modo di affrontare il dolore, la speranza impossibile di un povero vecchio, che vede una stella cadente prima di andare a dormire.
La speranza però è una forza misteriosa, e il burattino Pinocchio si anima. Non è però ancora un bambino. Non può esserlo. Per diventarlo deve affrontare varie peripezie, anche se ovviamente non può saperlo. Al momento, deve accontentarsi di questa forma ibrida. In qualità della sua vita a metà, però, viene cacciato da scuola, praticamente gettato per la strada. Intuite dove voglio arrivare? Da piccoli, guardando questo grottesco burattino ballerino, realizzavamo la crudezza della storia? Trovavamo già allora il Grillo Parlante insopportabile? La Fata Turchina irresponsabile nel suo animare un pezzo di legno ma solo un po’? Provavamo già pena per Geppetto, in cerca disperata di una paternità che gli è stata negata e poi ridata e poi ri-negata da forze misteriose che non può comprendere?
Cosa c’è di nuovo?
Questo live action ricalca quasi alla perfezione il film animato anni Quaranta. É dunque un’operazione nostalgia? Non comprendo cosa altro potrebbe essere. Io, sicuramente, se avessi un figlio non glielo farei vedere, non senza essere prima pronta e preparata a spiegargli l’empatia, l’inclusione, la crudeltà del destino, cosa vuol dire essere figli ed essere genitori, la fama nell’era di Instagram. Capite che è impegnativo? E non bastano le battute (argute, bisogna ammettere) del Gatto e la Volpe, i personaggi più interessanti della storia. Non bastano i siparietti del Grillo (che, ripeto, è intollerabile e sembra in tutta onestà un cavolino di Bruxelles) a portare questo film dagli anni Quaranta ai nostri giorni. Non c’è freschezza, non c’è novità. C’è solo mestizia. Avrei preferito tenermi il mio vecchio ricordo di Pinocchio. Che era triste uguale, ma io ancora non lo sapevo. Ho apprezzato il guizzo finale: Pinocchio non si trasforma sullo schermo, e non si sa neanche se mai arriverà a trasformarsi davvero o è solo leggenda. Quello che sappiamo, è che lui si sente già bambino vero. Amen.