Recensione È stata la mano di Dio: arriva al cinema – e su Netflix – l’atteso film diretto dal pluripremiato regista Paolo Sorrentino
Niente sfarzo, niente personaggi eccentrici in cerca d’ispirazione, niente Roma. Solo la poesia della vita vera immersa nell’atmosfera di Napoli, tra magia e contraddizione. È stata la mano di Dio non è solo l’ultimo film di Paolo Sorrentino, ma è proprio Il suo film. Una lettera di perdono a se stesso e a quella città che lo ha cresciuto, ma che lui, consapevolmente, ha deciso di lasciare, alla ricerca di qualcosa di più.
In questa recensione di È stata la mano di Dio vi porteremo nei meandri della pellicola in cinema selezionati il 24 novembre e su Netflix il 15 dicembre 2021. La fatica di Sorrentino è stata scelta per rappresentare l’Italia alla corsa all’Oscar come miglior film Straniero.
Una famiglia eccentrica
La pellicola è un bildungsroman audiovisivo, un percorso di formazione che, però, si distacca dai classici dettami del genere per elevarsi a qualcosa di altro. Il film segue la vita di Fabietto Schisa, interpretato da Filippo Scotti, nella sua consacrazione ufficiale sul grande schermo, un ragazzo introverso che fatica a trovare il suo posto non solo nel mondo, ma anche tra i suoi coetanei.
Per questo motivo si rifugia nell’eccentricità della sua famiglia che, per certi versi, dà sfoggio di alcune difficoltà, come la pazzia della sensuale zia Patrizia (Luisa Ranieri) e la violenza dello zio, ma che ne nasconde altre, ben più gravi. L’idillio di una giovinezza serena, seppur in solitudine, per Fabiuccio inizia a sgretolarsi quando si scontra violentemente con la fragilità dei genitori (Toni Servillo e Teresa Saponangelo) in un climax crescente di drammaticità. E, mentre la città di Napoli si prepara a dare il benvenuto a Maradona, Fabiuccio e il fratello (Marlon Joubert) dicono addio ai genitori, morti per quell’inspiegabile ragione che si chiama destino.
Un film personale, autobiografico, sincero – Recensione È stata la mano di Dio
La recensione di È stata la mano di Dio non può prescindere dall’analisi del dolore. Il dolore della perdita costringe il giovane a interrogarsi su se stesso, alla ricerca della risposta definitiva alla fatidica domanda dei parenti: “Cosa vuoi fare da grande?”. La consapevolezza del suo essere si concretizza nel dialogo, capolavoro di umanità, con la zia Patrizia, quando Fabietto ammette la volontà di “fare il regista di cinema”.
Un momento catalizzatore che inizia nella stanza di un ospedale (dove si trova rinchiusa la zia Patrizia) e termina nella cella di una prigione dove l’amico contrabbandiere gli regala l’ultimo pezzo del puzzle, il valore della libertà: “Gli orfani sono tutti un po’ disgraziati, ma tu hai la fortuna della libertà”. Sorrentino ha dato vita ad un film compiutamente personale e decisamente autobiografico spogliato dai tratti convenzionali del genere a cui lo spettatore è abituato, perché vittimismo e compassione lasciano spazio, al contrario, all’ironia e alle risate usate come unico salvagente contro l’accetta marziale di un destino beffardo.
In questa pellicola non c’è cinema-spettacolo perché la macchina da presa fa un passo indietro e lascia parlare la vita, così vera da innescare una naturale simbiosi dello spettatore con il protagonista. Filippo Scotti, già insignito del premio Marcello Mastroianni, porta sullo schermo non solo un talento innegabile ma la sensibilità ed innocenza di un ragazzo di ventidue anni; Toni Servillo rimane, come sempre, magnetico e trainante, tanto da far sentire l’eco della sua presenza anche nella seconda parte del film, dominata dalla sua assenza.
In conclusione
La potenza della pellicola risiede, senza dubbio, nell’umanità di un racconto senza artifizi, con l’efficiente richiamo all’immaginario della famiglia napoletana – senza cadere nella trappola dei luoghi comuni – in cui il dialetto gioca un ruolo principe. Con È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino ha reso omaggio al suo dolore attraverso quello stesso mezzo che gli ha permesso di cannibalizzarlo, regalando al pubblico una grande lezione di sincerità cinematografica.